In una regione avara di altimetrie, anche una piccola “quota”, oggi, per noi, può costituire una possibilità in più di apprezzamento, di comprensione del tipo di relazioni intessute da una popolazione col proprio territorio. Un breve itinerario nello sviluppo intrigato del vecchio caseggiato cittadino rivela il susseguirsi di spazi carpìti al dislivello collinare sul quale il paese si adagia (Monte Belvedere). La visita può benissimo prendere il via dalle immediate adiacenze della chiesa madre “Maria SS. del Popolo”.
Ci si incammina da subito per Via Roccaforzata, antico asse intercomunale. La strada è stretta e, nella parte iniziale, anche abbastanza caratterizzata da corpi di fabbrica in avanzamento e arretramento con scalinate in ogniddove e qualche parapetto delimitante pure i retrostanti giardini (Foto nn. 35-36).
Immancabili, ad un’attenta osservazione che si raccomanda per tutta la durata del percorso, sono le infinite aperture di areazione nonché le ribalte/scalinate (Foto nr. 37) che immettono alle antiche sottostanti private cantine direttamente scavate nella nuda roccia tufacea una volta ospitanti palmenti e l’immancabile stalla di ricovero dell’unico ed infaticabile familiare animale da lavoro, il mulo (in gergo, la “mula”), che in un rocambolesco districarsi di dislivelli (scale) riusciva a trovare ospitalità nelle viscere più profonde della casa. Tutto il paese è costruito con i conci tufacei ricavati direttamente dal sottosuolo, dalla cantina sottostante, pertanto la costruzione sovrastante si regge con una serie di volte a botte, a stella, a vela, sui vertiginosi ed infiniti vuoti di cava che pare, siano anche intercomunicanti (utilizzati per ricoveri antiaereo nell’ultimo conflitto mondiale).
E’ lì che il pregiato olio locale e le variegate qualità enologiche trovano il loro completamento, le loro ragioni d’essere in un microclima perfetto.
Anche le più umili case presentano nelle proprie facciate una ricchezza di modanature, cornicioni, mensole e balconi tutti in pietra tufacea articolatamente sagomata dal duro lavoro degli scalpellini locali d'un tempo (Foto nr. 38). Lo sguardo ai piani superiori delle facciate spesso sembra restituire ciò che ancora non è stato toccato dalla furia funesta dei passati anni ’60 e ’70, nel voler essere, apparire, a tutti i costi, moderni, in sintonia con la nuova condizione economico-sociale offerta dal miraggio di un esodo che dalla campagna si apriva verso la nuova e “dignitosa” stagione occupazionale della grande industria metalmeccanica (ex Italsider, ora Ilva), una vera transumanza economico-sociale che a lungo termine ha rivelato la sua fallàcia anche nello smantellamento di un vitale micro tessuto artigianale da sempre direttamente connesso ad un’identità territoriale.
Ma, come si può dare torto ad una popolazione vissuta sempre al limite dell’indigenza, condannata ad un quotidiano durissimo spossante lavoro nei campi o in cava (cavamonte/tagliapietra) senza certezza alcuna di prospettiva futura di vita atta ad aprire un possibile spiraglio verso opportunità altre di cambiamento della propria condizione sociale ed esistenziale; come si può dar torto a non fruire di qualche contraddittorio beneficio, di qualche comodità di vita, ed allora: sòglie e stìpiti di marmo, porte in alluminio anodizzato, parziali interventi di piastrellatura delle facciate - specialmente ai piani inferiori -, pertanto, un concreto piccolo benessere, o, almeno, aspirazione tale, nelle dovute ”comodità di facciata”.
Proposta di un progetto per la valorizzazione turistica, culturale e ambientale delle tagghjate
Metamorfosi dell'immaginario delle rovine dal parco delle Tagghjate al comprensorio del Belvedere