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(racconto inedito) di Giovanni Carafa

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Della mia adolescenza posso dire che, inizialmente, rispetto agli impegni formativi di studio di vera opportunità di cambiamento della condizione sociale e culturale familiare, tipica della desiderata del particolare momento storico, gli ardori tutti stagionali propendevano per un distratto sensoriale legato per lo più all’apprezzamento musicale, pertanto, le relazioni amicali dello specifico interesse tendevano a svilupparsi nelle frequentazioni delle realtà paesane limitrofe, là, dove, a un tiro di schioppo, avevo trovato una maggiore disponibilità tra il gruppo dei pari perché si potesse condividere tale propensione. Questo, inevitabilmente, portava a estendere le relazioni interpersonali tanto con i nuovi coetanei che con il relativo intorno. Così, non era improbabile permanere momentaneamente in bar, luoghi pubblici e, comunque, associativi, che poi risultavano essere acquisizioni di conoscenze specifiche di quel’altro esperito, e assunto come estensione di una territorialità ora evidentemente divenuta interurbana.

Era bello condividere tale diversificata socialità che ci faceva crescere ancor più rafforzati nel vissuto quotidiano. Quante volte, dopo, negli anni successivi, e ancora oggi, quelle passate conoscenze saranno un modo per ritrovarsi quasi sempre in un contesto familiare e sociale allargato di vera stima e calore fraterno, tanto necessari per vivere una dimensione consona di appagamento relazionale.

Col crescere, poi, le esigenze formative personali, familiari e istituzionali cominceranno a richiedere il loro necessario impegno, pur mantenendo ancora l’esperenziale appena acquisito: principierò nel dedicare più tempo ai pomeriggi prolungati e alle prime notti di intrattenimento di studio, lì, nel mio “eremo”, una stanzetta sul terrazzo, da dove, sugli estesi lastrici da una parte e un affaccio finestrato a strapiombo dall’altra, potevo gustare il variegato candido casamento paesano coronato dai vicini segni identitari di sempre, la chiesa madre, nelle sue nervature esterne di volta e il supremo campanile, anche nell’inebriante cadenzato sonoro giornaliero, l’anonimo retro della sfavillante facciata e gli infiniti terrazzamenti orientali, nonchè quegli antichi domestici riservati che di fresco calcinato e vissuto si animavano di un dolce vocio appena percepito, eppure, tanto, tanto vitale al mio e al vicino ascolto.

Dal finestrato, poi, erano il Monte e la più che mai vicina Villa Cofano a farla da padroni: l’uno, nel suo profilo morbido e nel rinnovato spontaneo stagionale, l’altra, con la sua forte carica cromatica dai cupi rossi e dai contrastanti bianchi di cornice. Era, quella, un’identità visiva che accompagnerà anche quasi tutta la mia adulta giovinezza...

Una “nota sonora” di unicità ambientale, poi, sempre mi giungeva all’orecchio, riconoscendola come identità irrinunciabile del mio essere lì, in quel luogo, e, ancora, uno sguardo all’orizzonte, verso oriente, mi riconduceva spesso a quel filare di pioppi che la memoria d’avolo non potrà mai dimenticare. Ancora più in là, in un attento visivo, potevano pure connotarsi le pertinenze del vicino aeroporto di Grottaglie, mentre, sul finire, lì, in lontananza, e sempre oggetto del mio curioso indagato, erano i monti di Martina. Più prossimo alla mia, poi, era il costellato limitrofo familiare: da una parte, Carosino, Monteiasi e Grottaglie, e, con un ulteriore acuirsi, Montemesola; dall’altra, invece, Monteparano, mentre, Rocca rimaneva solamente nell’immaginario percettivo, così nascosta com’è dal declivio urbano del nostro più immediato casamento.

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La riservatezza, la solitudine, la quiete lì erano massimi, in quel mio appartato pur tanto presenziato di tale vitale compagnia di irrinunciabile identità. Tra un sospeso impegno e l’altro, il mio vibrato assolo di un amore mai sopito… si diffondeva all’unisono in quell’aereo intorno, ma anche quel grande pannello truciolare, che avevo tanto faticosamente trascinato in quelle alture, ritrovava, nel suo essere infinita operatività, un’attenta riflessione e creazione anche se ancora in erba.

L’abitazione di quel primo piano i miei l’avevano acquistata dalla zia del ramo paterno , la zia Benedetta, che ora viveva, col proprio superstite nucleo familiare, anche in uno di quei primi periferici condomini sulla strada per Carosino, quel fiero d’architettura che aveva paventato il miraggio espansivo di una realtà urbana evidentemente ancora da “piccolo mondo antico”, e ciò, negli Sessanta dell’evo appena trascorso.

La piccola stanza aveva una grande pila (vasca) in cemento armato, al tempo costruita dallo zio Peppino, e che mi deliziava di una ineguagliabile fresca e gustosa cannella tuttofare... Per terra, poi, era solamente un battuto, ugualmente in cemento, con ancora le impronta dei palmari artigli di una mai diretta conosciuta esistenza se non unicamente nel narrato dei miei: la zia, lì, al tempo, aveva ospitato il suo domestico di colombi, così, per gli usi di famiglia, e che, ancora nel mio immaginario, ora consideravo nel volo occasionale d’osservato di un transitante su quell’aereo spazio, un comparire stranamente contraddistinto da una vermiglia lettera “M” sul “mostrato orgoglio”.

Le lunghe estati, lì, quando privo di occasionali adesioni amicali di un condiviso balneare, sortivano, pur tra tanto escogitato affaccendato, l’ascolto continuo di programmi radio in un partecipato etereo di accattivante fantasia.

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Quella compagnia, mai però fruita negli impegni stagionali di studio, sarà un’ulteriore finestra aperta sul mondo: non era solamente l’universo dell’allora attivissimo rivoluzionario musicale ad attrarmi, anche se inizialmente si era caratterizzato come tale, sì, perché, a poco a poco le varie trasmissioni tematiche di attualità e approfondimenti culturali cominceranno ad essere una mia considerata, dapprima in un occasionale approccio, poi, via via con le testate giornalistiche dei radiogiornale e con le relative rubriche degli allora unici tre canali nazionali.

L’apprezzamento di “Radiotre” fu una conquista più matura, più in là nel tempo, evidentemente, per il suo portato contenutistico più consono al mio formativo, alla mia seppur ancora giovane sensibilità. Sarà, infatti, proprio quel palinsesto a coronare i miei solinghi notturni nella cantina dei nonni materni acquisita ormai come pertinenza della mia personale abitazione familiare.

Lì, ad esempio, apprenderò, in anteprima, dell’attualità, in essere, della Condizione postmoderna, da me poi prontamente indagata con l’acquisto del minuto ma puntale relativo pubblicato; conoscerò, pure, gli indimenticabili incontri d’attualità coinvolgenti lo specifico visuale nelle superbe interviste o citazioni critiche coinvolgenti Luciano Caramel, Giovanni Carandente o Palma Buccarelli, solamente per fare alcuni nomi; nonché i mai dimenticati riferimenti culturali musicali di sperimentazione riferiti ai caposcuola Webern, Schönberg, Luigi Nono, Bruno Maderna, e Sylvano Bussotti e le possibili connessioni con le liricità kandischiane: mi integreranno le acquisizioni del percorso di studi appena concluso, ma, principalmente, saranno a sostenere la frenetica operatività creativa che solamente l’ammaliante mai distratto calcografico sarà a confortarmi.

Nel più profondo silenzio della notte, tra gli spessi muri e i tenui segni di un trascorso familiare d’identità, freneticamente ero a marcare d’inciso il duro metallico, a correggerlo e a inchiostrarlo, quindi, a imprimere di fresco la dolce rosaspina nel suo mai accontentato restituito… Tra uno stimolo sonoro di impareggiabile classicità… e un puntuale informativo d’attualità la “scatola parlante” accarezzava le fresche corde della mia giovane e solinga sensibilità.

Grazie.

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