Un'inquieta presenza
(racconto inedito) di Giovanni Carafa
In famiglia possedevamo due piccoli appezzamenti di terreno agricolo ereditati dal ramo materno. Erano vicini tra loro e in località Sott’a lu monti; per intenderci, la piana che dalle pendici del Monte Belvedere si estende verso il capoluogo, Talsano e Leporano.
Lì, sulla provinciale per Pulsano, e a due chilometri dal nostro paese, all’incrocio con La Centrale, e appena a ridosso delle Tagghjate, ci si portava verso Furnu vecchiu, vestigia di proverbiale identità. Il nostro primo possedimento constava in sei filari di vigneto, rigidamente a spalliera, che iniziatisi dal muretto a secco del fianco stradale si inoltravano all’orizzonte per un paio di “proverbiali” centinaia di metri, mai dimenticati nel percorrerli, non foss’altro che per l’allora mia tenera età…
Nel bel mezzo del fondo, pertanto lontano dagli eventuali possibili interessi altrui (anche se poi non mancheranno incresciosi riscontri…), papà aveva piantato due deliziosi peschi, così, per le esigenze stagionali di famiglia, e, ancora, verso la fine del lungo esteso, erano, quasi nascoste, perché ad alberello, ben cinque piante di indimenticabili qualità di uva da tavola: cardinale, regina e italia, nonché la onnipresente uva di vraca (dalla risaputa unicità di fragranza).
Con la Cardellino era solito portarmi con sé, lì, vuoi per fargli compagnia, vuoi per avere un occhio sicuro in più sulla motocicletta, non potendo fare diversamente, durante il lavoro, di lasciarla a ridosso del muretto di cinta del fondo.
Papà, in senso stretto, non era un agricoltore; accudiva i due appezzamenti al più e meglio che potesse, e tutte le volte in cui riusciva a ricavare un po’ di tempo disponibile rispetto al suo lavoro principale (operaio civile dell’Arsenale della Marina militare del capoluogo), e ciò, avveniva al sabato pomeriggio e alla domenica, anche se non in modo assiduo. Questo, col tempo, gli costerà un enorme sacrificio.
Nel permanere lì, qualche ora, senza far nulla, mi annoiava tantissimo, pertanto, dovevo trovarmi il da fare, ma, per quanto potessi ingegnarmi, la solitudine e il perfetto ordine colturale dell’intorno non mi allettavano affatto; guai, poi, ad attraversare la vicina provinciale per andare a sbirciare alle allora fumanti Tagghjate, sì, proprio così, “fumanti” perché sito privilegiato del continuo andirivieni dei camion della nettezza urbana del capoluogo che ivi sversavano il loro “fresco” e “nauseabondo” carico…
A sottrarmi da quell’impaccio, pero’, un po’ mi soccorreva il secondo appezzamento, a pochi passi più in là. Era, questo, di forma quadrangolare e abbastanza esteso; e, anch’esso, come il primo, aveva uno dei lati cinto a secco e dava sulla strada di Furnu vecchiu.
La coltura consisteva in quattro antichi ulivi, disposti simmetricamente, due a sinistra e due a destra, rispetto a un cenno di tratturo interno, e, in asse con quest’ultimo, due mandorli, uno a frutto dolce e l’altro amaro, comunque, entrambi del tipo muddiscu (mandorle a guscio fragile…). Papà, qui a volte piantava un filare di favette, o di ceci, giusto, per uno sfizio di famiglia, così, per gustarli verdi, ma poi, col tempo, aveva desistito a causa delle frequenti intrusioni altrui che ne facevano indebita incetta.
Quanto lavoro gli costavano quei quattro ulivi: ogni due anni la potatura, poi, la continua preoccupazione delle malattie endemiche, la pulizia dell’area di base (li “scusi”) e non, la raccolta delle olive, il trasporto, sulla Cardellino, di quei quattro singoli sacchi di juta fino al frantoio del paese e, ancora, il presenziare lì alla spremitura e consegna dell’olio, e così via. E i due mandorli? Beh, nessun problema: non c’era né il tempo per raccoglierne il frutto, se non appena un’occasionale manciata, magari, in primavera; né l’utilità… così il tutto rimaneva lì, a perdersi.
E’ su di essi, invece, che io ritrovavo la mia intraprendenza: arrampicarmi come un gatto su ogni ramo dove in ogni stagione c’era sempre qualcosa da sgranocchiare, ma anche da fantasticare da quell’osservatorio privilegiato.
Così, un dì, di un canonico meriggio estivo, mi capita, proprio al primo mandorlo, quello delle amare leccornie, la curiosità improvvisamente di rintracciare l’autore intenso di quel frenetico frinire. Non avevo mai visto una cicala, se non in formato gigante sul libro sussidiario di scuola; il grillo, poi, men che peggio: sempre antropomorfo e nelle favole di ogni e per ogni stagione anche se poi, per chissà quale strana associazione, nell’esperienza concreta della vita di un bambino di paese, lo avevo identificato con l’onnicomprensiva “cavalletta” (zuzzuvìcchiu) sempre rinvenibile tra i secchi fasci di tralci domestici di memoria agreste.
Il richiamo era forte, e la mia attenzione uditiva propendeva per una direzione, lì, su un non ancora ben distinto ramo. Ecco, l’agile e pronta mia arrampicata, la biforcazione del tronco e una tenue parvenza. Più mi avvicinavo e più il sonoro diventava intermittente.
Con pazienza sono a fermarmi, attendere la ripresa del ritmico frinire; poi proseguo; mi fermo nuovamente, e ancora procedo; lo sguardo è fisso, acuto; il fiato è sospeso; i movimenti lenti, cadenzati e, e… “Che delusione! la cicala non è una cicala ma è una grossa mosca nera” (secondo l’esperienza più immediata d’infante); “eppure”, mi dico, “è lei, è lei la fonte canora; sì: è proprio lei!”.
Ora il dovuto è d’obbligo, pur tra il deluso riscontro bisogna procedere; ancora un allungamento, un sospeso fermarmi, ed ecco, ecco il fulmineo palmo copputo vibrare dell’irrequieto ospite. “Evviva! evviva! … è fatta! è fatta!”; ora bisogna scendere da quella posizione in bilico, con una sola mano disponibile; avverto la difficoltà, ma sono consapevole del mio più volte esperito. Con un gomito d’appoggio e l’altra mano libera, pur tra tantissime difficoltà e acrobazie equilibristiche che solamente a quell’età sono possibili, sono giù, sono pronto ad attenzionare la refurtiva che intanto ronza nel copputo palmo, ronza come un cavo dell’alta tensione elettrica. La cauta apertura a due mani e a dita leggermente slargate a mo’ di stecche di una gabbia, mi permettono di sincerarmi ed esperire la verità della nuova conoscenza.
Va be’, e questa è fatta!
Ma ora bisogna che vi narri il trascorso di un’altra avventura, sempre lì, nel quadrangolo arboreo. Sì, proprio così, e, giuro, stavolta la cosa è un po’ diversa, non foss’altro che per la mia proverbiale, paralizzante paura di…
Papà, chissà perché, anche quella volta era al suo solito indaffarato in uno dei due ulivi della parte del campo più prossima al confine con la proprietà di Pippinu Mustazzu; io gironzolavo tra i mandorli e i restanti due ulivi.
Ero annoiato, veramente annoiato; non c’era nulla, proprio nulla che potesse attrarmi o distrarmi, che dir si voglia.
Mi avvicino all’ulivo più prossimo al muretto di cinta; ha un tronco molto grande e una piccola cavità ai suoi piedi; nulla di insolito, dunque. Mi sposto più in là, descrivo un percorso zigzagato, di fantasia, e verso il gemello arboreo.
La noia è incessante, immensa direi; il piattume, tanto del terreno che del mio attrattivo è altrettanto unico. Mi riporto, quindi in prossimità del tronco, quasi a un passo da esso, ed ecco, ecco improvvisamente “un colpo al cuore”, un “paralizzante istinto” è a bloccare il mio moto: un luccichio scuro si agita quasi ai miei piedi; un attimo, solamente un attimo, giusto il tempo di un fulmineo dietrofront, e, in preda al panico più esasperante, sono da papà, correndogli incontro e… “Papà! papà! lu ‘scurzzoniu’, lu scurzzoni! là, sotto l’albero, sotto l’ulivo, a quell’ulivo”, indicando tremante, l’inquieta direzione.
Papà è fulmineo; è prontamente presso di me, a rassicurarmi con la sua presenza tuttofare, e in un’insistente richiesta:“Dov’è? dov’è?”; io gli faccio cenno, gli indico la direzione dell’infausto. Lui inaspettatamente, chissà come, ora ha reperito una canna, una lunga canna secca, sicuramente da sempre nascosta tra i rami del suo dedicato, ed è a correre, a correre verso l’ingrato intruso.
Osservo papà, lo osservo, lo osservo anche se “a debita distanza…”. Il suo è un avvicinamento lento, lento ma sicuro, ed ecco, ecco estendere il “Santo” presidio: un mirare sull’informe, sull’informe attorcigliato luccichio nero, e… e “un colpo!”, un vibrato colpo che istantaneamente pare mettere fine a quell’infausta presenza che subito recuperata, appesa alla punta del lungo virgulto, ora mostra il contrasto biancore dello strisciato ventre.
Un brivido di freddo è a percorrermi la schiena; il mio sguardo è lì, fisso, sfidante ogni soccorso gesto. Papà ora ha riposto l’esanime nello stesso luogo in cui l’aveva colto, e non smetto, “a debita distanza”, “a debitissima distanza”, di sincerarmi che ogni moto vitale abbia veramente avuto fine.
Piuttosto, chissà perché, resto stupito che papà non avesse provveduto a infierire oltre sulla preda e poi, magari, a seppellirla. Però, ricordo che lui nel procedere nell’azione neutralizzante aveva un’espressione non fiera, quasi che… non saprei dire cosa, quasi un arcano sospeso emotivo; boh!
Intanto, più volte attenzionavo il reperto, che sempre lì giaceva, immobile. Così, mi sono ulteriormente allontanato cercando di cancellare dalla mente, il brivido ricordo, quell’inquieto evento, intrattenendomi, stavolta, più prossimo a papà, non avendo proprio più nulla da fare o intentare.
Ogni tanto, sempre “a debitissima distanza…”, tornavo dove “il dente duole”, ma, “nulla di nuovo!”.
Bene! Anzi, “male”, direi, col senno di oggi.
Ma, ecco, ecco ancora un’ultima visita, un ultimo mio capolino e… e: “La serpe! la serpe! la serpe non c’è più!”. Corro prontamente da papà, che ora è a non darmi più di tanto attenzione; resto smarrito: sto immaginando; immagino una nuova… chissà, una nuova avventura dello strisciante attorcigliato, magari, ai miei piedi, e subito è un fremito; un fremito che come una corrente attraversa tutto il mio corpo.
Intanto, papà, insistentemente da me sollecitato, è in un suo distratto avvicinarsi al sinistro luogo, e riscontrato il vuoto esito, è di ritorno al suo dedito, tra il mio più incomprensibile non senso…
Non mi darò più pace di quella inquieta presenza-assenza, ora, in me, ancor più presente pur nel rassicurante intorno familiare.
Chiederò a mia madre il perché quell’esanime inquieto si fosse così improvvisamente acquietato al semplice tenue vibrato di una canna.
Il suo conforto sarà, pur sempre,
l’essere, quel “Santo” virgulto, il segno identitario di Colui che per primo lo aveva impugnato per la redenzione delle nostre miserie...
Grazie.
P.S., L’immagine reale del serpente in tutte le sue forme, pare che in ogni latitudine, cultura e tempo, ingeneri nel riguardante uno spontaneo senso di inquietudine, di allarmismo, suscitando, altresì, una ricca simbologia e ritualità molto attenta alle significazioni d’identità del gruppo sociale di appartenenza.