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Di terre abbandonate, di boschi, di sciocchezze

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Quel che è stupefacente, è che molti sedicenti ambientalisti, lodatori del tempo passato, oltre all’allevamento libero, predicano l’abbandono dell’agricoltura intensiva, per tornare ad un’agricoltura estensiva. Se anche quella cosa fosse possibile, e non lo è, visto che c’è ben poco spazio fisico per aumentare le superfici coltivate, essa significherebbe la fine immediata di ogni forma di vita selvatica di dimensioni non esigue, fuori dagli ambienti inospitali. Questa specie di idee utopistiche si basa su una percezione errata dei limiti fisici del nostro mondo, e sulla solita confusione tra campagna e natura (l’agricoltura del passato era naturale). Si basa anche sulla solita concezione antropocentrica del mondo (passiamo a coltivazioni estensive, così non usiamo prodotti chimici e la nostra salute migliorerà), e sulla solita nostalgia per un passato mai esistito (quello dei felici agricoltori del buon tempo andato).

L’unica speranza di conservare un po’ di specie selvatiche, almeno fino a quando l’umanità non ridurrà drasticamente i suoi numeri (e anche dopo d'allora), consiste nel recuperare spazi in cui esse possano vivere, praticando un’agricoltura più intensiva di quella odierna. Recentemente, a causa appunto di un’agricoltura più intensiva, in alcune zone si sono aperti spazi interessanti per le altre specie. Molte zone del nostro Appennino, delle Alpi e delle Prealpi, sono esempi di questo fenomeno, e sono sotto gli occhi di tutti. In quelle zone (almeno dove il turismo non ha creato i suoi insediamenti) si sono creati spazi per la reintroduzione di specie localmente estinte: l’abbandono dei terreni da parte degli ultimi agricoltori montani sta consentendo di rinselvatichire quelle aree, restituendole ad una fauna meno disturbata dalla presenza umana, oggi più discontinua che in passato.

Giancarlo Lagostena estratto dal libro: Ad Occhi Bendati, un approccio non convenzionale alla conservazione delle specie e dell'ambiente

Alla base di quel fenomeno, che alcuni giudicano negativo, e che invece è fortemente positivo, c’è la concentrazione dell’agricoltura nei terreni più adatti, quelli delle pianure. Il fenomeno è positivo, perché potenzialmente ricrea boschi spontanei laddove c’erano prati e coltivazioni; tendenzialmente ricrea boschi veri, non coltivazioni di alberi o di castagne. Boschi in cui il sottobosco non viene asportato, boschi che nessuno pulisce, boschi in cui gli animali del bosco possono vivere. Boschi che con i secoli potrebbero diventare maturi, cioè in "equilibrio" . Qualcuno lamenta che l’abbandono delle campagne causa problemi al suolo, che prima veniva protetto contro le frane da terrazzamenti e da canali di scolo delle acque che gli agricoltori montani manutenevano. Nulla di più sbagliato: quello che con un senso del tempo ristretto sembra una cosa ovvia, con un senso del tempo adatto a comprendere i fatti naturali diventa una sciocchezza. Se analizziamo la storia del fenomeno, infatti, la realtà ci appare molto diversa.

Certamente le aree vicine ai nostri rilievi montani, in cui si stabilirono i primi agricoltori, magari due o tremila anni fa, furono quelle più fertili e più adatte: i fondi delle valli, le foci dei fiumi. Non è difficile immaginare come quelle aree pianeggianti venissero sfruttate per prime, per coltivare ed allevare il bestiame, e come probabilmente furono utilizzate fino all’esaurimento dello spazio, man mano che la popolazione aumentava. È probabile che solo gli eccentrici e le vittime di persecuzioni si inerpicassero sulle montagne allo scopo di coltivarne delle parti, prima che lo spazio si esaurisse nelle zone più comode. Per capire come le popolazioni che vivevano in prossimità dei monti si sentissero respinte dalla vista dei picchi e delle vette, basta analizzare i resoconti dei primi viaggiatori moderni nelle valli alpine, che risalgono normalmente al settecento (). Le montagne nella maggior parte dei dialetti locali non avevano neanche un nome, e venivano viste con nessun interesse, quasi fossero soltanto un piatto fondale di scena della vita di quelle popolazioni. In pratica, l’uomo si avventurava sui colli solo se c’era costretto da necessità vitali .

Con ogni probabilità l’aumento della popolazione fu la ragione principale per cui l’uomo si inerpicò in alto, per trovare spazi coltivabili. Certamente quella non fu la sola ragione; infatti, anche la prepotenza dei latifondisti fece la sua parte, almeno nel nostro paese. Ma la prepotenza dei signorotti ebbe l’effetto quasi marginale di anticipare il fenomeno di qualche tempo; infatti, in assenza di quelle vessazioni, con ogni probabilità la stessa cosa si sarebbe verificata spontaneamente qualche decennio più tardi, quando la popolazione fosse cresciuta ancora un po’.

Quando l’uomo iniziò a coltivare le pendici delle montagne in misura significativa, provocò danni ecologici alla flora, al suolo ed alla fauna in misura molto grande. Le essenze boschive spontanee vennero in parte sostituite da piante importate, come il castagno, perché più produttive o perché più interessanti per le industrie e l’economia del tempo. Così ad esempio in alcune zone si eliminarono quasi tutti gli alberi che non fossero castagni e querce; i primi erano interessanti per la produzione di castagne e tannino (e per questo vennero introdotti), le seconde per esempio erano ottime per costruire il naviglio delle repubbliche marinare, oltre che come legna da ardere. Grandi zone vennero disboscate per creare prati e campi, confinando il bosco alle zone più impervie e scoscese. Anche lì, però, il bosco non poteva mantenere il suo equilibrio naturale: in molte zone le piante venivano ciclicamente tagliate per ottenere legna da ardere e per altre necessità. Usando il bosco come una coltivazione, le piante del sottobosco venivano continuamente asportate, eliminando un elemento indispensabile degli ecosistemi boschivi.

Giancarlo Lagostena estratto dal libro: Ad Occhi Bendati, un approccio non convenzionale alla conservazione delle specie e dell'ambiente

Avete mai toccato con mano quel che succede in un bosco che viene "pulito"? A me è capitato una volta, molto tempo fa. Per evitare un possibile incendio, mi avevano convinto a "pulire" un tratto di bosco in cui qualche volta campeggiavo. C’era un sottobosco veramente fitto e rigoglioso, e quotidianamente vi osservavo scoiattoli, faine, ricci, natrici, alcune volte il tasso e la volpe, una volta perfino la nidiata di una gatta inselvatichita. Dopo la "pulizia", con cui buona parte del sottobosco venne asportato, per anni non vidi più vita in quel luogo, neanche dopo che una buona parte del sottobosco era ricresciuta.

Oltre ai danni alla flora, l’antropizzazione dei territori causò danni anche ai suoli. La sostituzione dei boschi con prati e campi aumentò l’erosione degli strati superficiali del terreno, spesso scoprendo le rocce sottostanti. Chi non sia convinto di quel meccanismo, può andare a vedere in che stato di erosione sono i rilievi della Sardegna, dopo un paio di millenni di pastorizia in cui di tutto si è fatto (specialmente col fuoco) per distruggere ogni copertura vegetale del terreno che non fosse prativa. I terrazzamenti e le coltivazioni resero necessario deviare i percorsi delle acque, con canali di deflusso diversi da quelli che l’orografia del territorio aveva determinato nelle migliaia di anni.

Ma quando devia le acque, l'uomo lo fa pensando alle piogge di cui ha memoria, e cioè quelle che sono cadute negli ultimi dieci o vent’anni; e così, quando cade una pioggia che per la sua eccezionale intensità ha la probabilità di verificarsi ogni duecento o cinquecento anni , tutti o quasi gli interventi dell’uomo si dimostrano sbagliati. Oggi queste cose iniziano ad essere comprese (nel senso che qualcuno le comprende benissimo, ma la maggioranza delle persone non le capisce affatto). In passato una maggioranza ancora più grande di oggi tendeva a vedere gli acquazzoni anomali come piccoli Diluvi, e magari ad attribuirli al malumore degli dei, cui si poteva forse ovviare con sacrifici e riti propiziatori, novene di preghiera e processioni. Si sa, la presenza degli stregoni, tra il popolo, è quasi sempre dannosa alla comprensione della verità, oggi come ieri.

La fauna non conobbe un destino migliore della flora: in tempi recenti l’orso, la lince, il cervo, il daino, il capriolo, il tasso, il lupo, l’aquila, la lontra, per citare gli animali più conosciuti (ed in tempi più lontani il leone ed altri grandi mammiferi) vennero tutti eliminati o portati sull’orlo dell’estinzione locale. Oggi si sente dire spesso che alcuni di quegli animali sono stati reintrodotti; in realtà nella grande maggioranza dei casi essi sono presenti in numeri talmente esigui da essere costantemente sull’orlo della sparizione dalle zone interessate. La quantità di animali che potrebbe vivere per esempio nelle zone appenniniche recentemente abbandonate dall’uomo potrebbe essere molto più grande di quella attuale; per molte specie il territorio potrebbe supportare popolazioni superiori alle MVP (le popolazioni minime vitali).

Infatti, la biomassa animale che si trova oggi su quelle montagne è grandemente ridotta rispetto a quella che c’era quando ci viveva l’uomo. Zone che in precedenza producevano nutrienti, in termini di erbe e di fogliame, sufficienti per alcune migliaia di bovini ed ovini, ora sembra non riescano a nutrire più di due o trecento cinghiali e qualche decina di caprioli. Le cose non stanno così: la produzione di nutrienti è sempre elevata, più o meno come quando l’uomo sfruttava il territorio , ma l’ecosistema precedente è compromesso, e sono necessari molti decenni, o più probabilmente alcuni secoli, perché si ristabiliscano in quelle zone ecosistemi certamente non uguali, ma simili a quelli precedentemente distrutti dall’uomo. Quindi ci vuole molto tempo, perché specie reintrodotte o ritornate spontaneamente nel territorio ne riescano a sfruttare le risorse alimentari. Purché nel frattempo l’uomo non arrechi disturbo, come quasi sempre è accaduto finora.

I boschi sono l’esempio più significativo dei tempi necessari perché un ambiente ridiventi adatto ad ospitare una fauna rilevante, in grado di sopravvivere da sola. Ma com'è un bosco "naturale"? In esso ci sono piante di tutte le età, da pochi giorni a qualche secolo; nei punti in cui la luce del sole penetra, c’è un sottobosco più o meno rigoglioso; sul terreno c’è uno strato di fogliame e di piante marcite che rinnova man mano l’humus ricco di batteri, insetti, vermi, piccoli animali. Esistono da noi boschi così? Personalmente non ricordo di averne visto uno; in tutti quelli che ho visto in Italia mancano almeno le piante secolari, se non in zone dalle dimensioni irrilevanti.

Ma da quella immagine, pure da noi così rara, manca ancora un elemento importante: i tronchi abbattuti, le piante cadute. In un bosco in "equilibrio" ogni tanto una pianta muore: i parassiti, il fulmine, la competizione con altre piante. Resta in piedi per un po’, da pochi anni a qualche decennio, a seconda delle dimensioni, e poi cade. Ogni tanto una bufera di vento abbatte gruppi di piante, che cadono con tutti i rami, e questi non gli permettono di adagiarsi completamente sul terreno. La stessa cosa fa il ghiaccio, nelle zone soggette a gelicidio, ed alcune volte la troppa neve. Si formano così accumuli di tronchi abbattuti di tutte le età, alcuni già marciti, altri più recenti, che quasi ininterrottamente pavimentano il terreno del bosco, certuni completamente adagiati, altri un po’ sollevati da terra.

A volte le piante cascando sradicano l’intera zolla di terra cui sono attaccate le radici, formando grandi buche e spostando massi; si producono così anfratti nel terreno e piccole grotte. In un bosco così quasi non si cammina; ci si arrampica, si striscia. Percorrere un chilometro è una fatica notevole: se non siete agili e preparati non vi conviene tentare. Ma in un bosco così gli animali trovano i ripari che gli sono necessari; rifugi contro le intemperie, zone tiepide d’inverno, tane per tenervi i cuccioli, nascondigli contro i predatori .

Giancarlo Lagostena estratto dal libro: Ad Occhi Bendati, un approccio non convenzionale alla conservazione delle specie e dell'ambiente

Figura 5.5 . La foto mostra alberi di faggio abbattuti dal troppo peso del ghiaccio sui rami, in un bosco del parco di Capanne di Marcarolo, sull'Appennino ligure piemontese. Le zolle rivoltate e quell'intrico di tronchi e di rami rappresentano ottimi rifugi per la fauna boschiva, e limitano l'invadenza dell'uomo. Da quel groviglio anche i cercatori di funghi più ostinati girano alla larga, creando nel bosco piccole zone indisturbate.

Ricevono anche poche visite di Sapiens, che trova disagevole procedere in quell’intrico. Quindi vi abitano, e riescono a sopravvivere anche in situazioni avverse. Una ricerca svolta nei boschi dell'Oregon ha mostrato che ben 178 specie di vertebrati in quelle foreste usano i tronchi abbattuti come loro habitat (si trattava di 14 tra anfibi e rettili, 115 uccelli, 49 mammiferi). Solo nei tronchi marcescenti sta circa un terzo della vita di quei boschi, per non parlare del sottobosco e degli invertebrati ().

Le situazioni avverse si verificano sempre, se si considera un periodo di tempo sufficientemente lungo, e dunque, se vogliamo che gli abitanti del bosco sopravvivano da soli, indefinitamente e con le proprie forze, i ripari, gli anfratti, i nascondigli devono esistere in quantità.

Avete mai visto un bosco così dalle nostre parti, e non alla TV, nei film di Rambo? Io non ne ho mai visto uno, e credo che la stessa cosa sia successa alla maggior parte dei frequentatori di selve nostrani, se non a tutti. Quindi non c’è da stupirsi del fatto che evidentemente nel nostro paese non si ha un’idea di cosa sia un bosco "naturale": quasi nessuno ne ha mai visto uno, da noi.

E non c’è da stupirsi se i nostri boschi non ospitano vita se non in misura quasi irrilevante: per formare un bosco così, a partire da un bosco pulito come i nostri, occorrono molti decenni o alcuni secoli . Meglio sarebbe dire "occorrerebbero": prima di raggiungere le condizioni per cui la vita possa prosperarvi, i boschi vengono tagliati, bruciati, ripuliti del sottobosco e delle piante cadute, perché "le piante cadute e i tronchi secchi non servono a nulla, intralciano il cammino, tanto vale che qualcuno li utilizzi per far legna o legname". Ma se uscite dall’Europa sovrappopolata, ed andate per esempio a visitare i boschi del Nord America , vi accorgerete che lì la cultura del bosco pulito non c’è proprio, e che alcuni boschi corrispondono alla descrizione fatta sopra (non tutti, molti sono troppo giovani, essendo ricresciuti dopo tagli indiscriminati avvenuti in genere all’inizio del secolo appena terminato). Ma quelle zone boschive, pur così "disordinate e sporche", spesso ospitano una quantità di vita molto più grande di quella che si può trovare nei nostri boschi "puliti".

Probabilmente è per quella caratteristica che per esempio in Pennsylvania (popolazione undici milioni di persone) vivono nei boschi quindici milioni di daini . In alcuni casi addirittura i parchi cittadini sono più "naturali" dei nostri boschi addomesticati; se visitate Stanley Park, che sta all'interno della città canadese di Vancouver, in alcune zone vedrete il terreno letteralmente ricoperto di alberi secolari caduti, sui cui tronchi marcescenti hanno radicato nuove piante, a loro volta cresciute per decenni o per più di un secolo . Quando l’uomo abbandona i territori che ha profondamente trasformato, sono necessari tempi lunghi perché i principali "equilibri" si ristabiliscano: intendo quelli della flora e della fauna, e quello idrogeologico. L’unica cosa da non fare, durante quel tempo, è cercare di manutenere i territori abbandonati .

Giancarlo Lagostena estratto dal libro: Ad Occhi Bendati, un approccio non convenzionale alla conservazione delle specie e dell'ambiente

Figura 5.6. Queste piante sono cresciute radicando sulla corteccia marcescente di tronchi abbattuti; questi a loro volta col tempo sono marciti (non completamente, se ne vedono ancora alcuni pezzi sul terreno) lasciando grandi gallerie tra le radici delle piante. L’ambiente che ne risulta non è adatto per passeggiare, ma va benissimo per gli animali del bosco (Foto scattata in Stanley Park, fornita da Paul Montpellier, City Arborist della città di Vancouver).

Oltre al costo assurdo, l’operazione, pur suggerita da molti, ha un difetto più grande: tende a perpetuare i problemi.

Per chi ha un senso del tempo adatto ai ritmi naturali, non è il recente spopolamento delle montagne a causare gli inconvenienti, ma il loro precedente popolamento. Eppure molti pensano che nel buon tempo andato i nostri agricoltori vivessero in equilibrio con la natura, e che quel paesaggio, di prati e cascine, e vacche al pascolo, e boscaioli a far legna, e greggi belanti, fosse un paesaggio "naturale". Come abbiamo visto, quella è solo poesia, e più precisamente, confusione, confusione.

Secondo quella visione, l'agricoltura delle Cinque Terre, praticata su dirupi impossibili (e bellissimi) a picco sul mare, per mezzo di terrazzamenti con muri di pietra, viene normalmente definita agricoltura eroica.

In quella cultura e fino a ieri, famiglie di sette o otto persone sopravvivevano campando con i prodotti di due o tremila metri quadrati di terra, strappata a forza di braccia a boschi abbarbicati alla montagna . Dal punto di vista antropologico, e se siamo ansiosi di trovare eroi tra i nostri antenati, forse quella cosa si può definire eroica; personalmente cercherei altri aggettivi. Infatti quel caso dimostra in quali trappole si caccino le popolazioni che aumentano di numero avendo già utilizzato tutte le risorse disponibili .

Giancarlo Lagostena estratto dal libro: Ad Occhi Bendati, un approccio non convenzionale alla conservazione delle specie e dell'ambiente

Figura 5.7. Natura senza pace. Siamo alle Cinque Terre; qui dapprima sono stati eliminati i boschi per terrazzare il terreno e coltivarlo, poi la zona è stata abbandonata per circa cinquant'anni. Durante quel periodo le piante pioniere della zona hanno ricolonizzato il territorio: eriche arboree, ginestre, corbezzoli, pini marittimi. Ma ora incendi appiccati più o meno periodicamente vanificano quella ripresa dell'ambiente naturale, lasciando solo scheletri anneriti ed un paesaggio repellente.

Ma non sono un antropologo, e mi limito al lato naturalistico del problema; sotto quell'aspetto (che certamente ieri per quegli agricoltori non poteva essere importante) quel tipo di agricoltura oggi si dovrebbe definire una sciagura, se non fossimo distratti da fattori nostalgici. Infatti adesso non ci sogneremmo di fare qualcosa di simile in zone così inadatte e così belle; se non fosse così, si potrebbe proporre di terrazzare e coltivare a vite, agrumi ed ortaggi anche tutto il promontorio di Portofino.

Al passo con la discussa visione poetica e confusa, e peggio di essa, è la diffusissima opinione che il dissesto ambientale ed idrogeologico (le frane e per qualcuno anche le alluvioni) si rimedi con squadre di giovani muniti di decespugliatore e motosega che puliscano i boschi e che con piccone e carriola riparino i terrazzamenti ed i famosi canali di scolo.

Non so cosa si pensi di quest’idea nel resto d’Europa (oltreoceano, lo posso testimoniare, non viene neanche presa in considerazione), ma nel nostro paese sembra diffusissima tra giornalisti, commentatori, opinion makers, gente comune e ahimè, addetti all’ambiente. Così la si sente diffondere da personale delle Comunità Montane, del Corpo Forestale, dei Parchi, delle organizzazioni regionali. Nessuno sembra pensare che i terrazzamenti furono creati anche per rimediare in parte ai danni al suolo prodotti dall’agricoltura in zone inadatte, e che pertanto, eliminata l’agricoltura, non resta che attendere che la natura ripari i suoi danni. Al massimo, con molta cautela, si potrebbe aiutare l’azione naturale di rimboschimento. Serve troppo tempo? I tempi della natura sono troppo lenti? Nel frattempo saremmo costretti a subire pesanti inconvenienti? A chi è stufo di tanta impreparazione e pressapochismo, verrebbe polemicamente da dire: peggio per noi, paghiamo l’ignoranza e l’imprevidenza dei nostri antenati, così come i nostri nipoti pagheranno le nostre.

Oggi purtroppo non possiamo fare altro che subire i danni causati dai nostri predecessori e da noi (e dalla loro e nostra cultura, miope ed antropocentrica); nel frattempo potremmo concentrarci a pensare, cercando di capire i fenomeni, per vedere di non causare altri danni. E per capire che l’unica cosa da fare veramente è agire sulla cultura. Purtroppo, per agire sulla cultura occorre un’azione educativa che allo stato attuale non si sa da chi dovrebbe essere curata. Perché il rischio principale delle azioni educative è che vengano fatte nel senso sbagliato; se c’è quel rischio, è meglio non far niente, e sperare che culture provenienti dall’esterno abbiano la meglio sulla nostra, e un po’ alla volta la sostituiscano.

Articolo estratto dal libro Ad Occhi Bendati - Un approccio non convenzionale alla conservazione delle specie e dell'ambiente di Giancarlo Lagostena edito da De Ferrari di Genova.

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Bibliografia.

18. Vedere The Man in the Ice, di Konrad Spindler, editrice Phoenix, Londra 1995. Pubblicato come L’uomo dei ghiacci, da Pratiche, 1998.

20. Vedere ad esempio Voyages dans les Alpes, di Horace Bénédict de Saussure. Neuchatel 1789 e 1796.

22. Jerry F. Franklin in Structural and Functional Diversity in Temperate Forests. Contributo a Biodiversity, già citato.

23. Su queste abitudini delle formiche, e su altre ancora, vedere lo splendido capitolo The Superorganism, in Biofilia, di Edward O. Wilson. Harvard University Press, Cambridge, 1984.

Note

[7] Ma quand'è che una foresta è matura, o "in equilibrio"? Non quando gli alberi smettono di crescere, o quando la composizione della flora si stabilizza, perché questo non avviene mai; piuttosto, quando smette di crescere la quantità di materiale organico che compone il bosco, comprendendo in questo i tronchi, i rami, le foglie, le radici di tutte le piante, sia vive che marcescenti, ed anche l'humus che sta nel terreno, che deriva dalla decomposizione delle piante stesse. In quella situazione la foresta ha immagazzinato tutto il carbonio possibile: continua ad assorbirne consumando l'anidride carbonica dell'atmosfera, ma ne emette altrettanto attraverso i processi di decomposizione e di ossidazione del materiale organico sul terreno. Una foresta giovane invece immagazzina più carbonio di quello che emette. Una foresta che brucia emette tutto o quasi il carbonio che ha. Quindi le foreste sono magazzini di carbonio, che viene tolto dall'atmosfera, riducendo l'effetto serra, e noi dovremmo tendere ad averne il più possibile nello stato maturo. Per ottenere una foresta matura, però, a volte e come vedremo non bastano 500 anni. Quindi cosa dobbiamo concludere, che ci rinunciamo perché serve troppo tempo? No, concludiamo che serve un diverso senso del tempo e che dobbiamo impegnarci; a goderne non saremo noi, ma le generazioni future

[8] Un recente ritrovamento archeologico sembra confermare quest'idea: si tratta di Otzi, l'uomo del ghiaccio, ritrovato nel settembre del 1991 ai margini del ghiacciaio Similaun, nell'altoatesina Val Senales, all'altezza di 3200 metri. Il corpo mummificato, datato a 5000 anni fa, presenta ferite che fanno pensare che stesse fuggendo dalla Val Venosta per raggiungere le valli austriache oltre il crinale, forse per sfuggire a qualche strage tribale (18).

[9] Sono quelle piogge che con la loro straordinaria intensità determinano la fisionomia del territorio ed il percorso dei canali di deflusso "naturali" esse normalmente travolgono quelli creati dagli agricoltori (o da amministratori sprovveduti).

[11] Un bosco è mediamente più produttivo di un prato, ma le specie che possono utilizzare i nutrienti prodotti in un bosco sono diverse da quelle che si nutrono di erbe.

[12] C’è una ragione, per cui parlando dell’ambiente del nostro paese mi riferisco prevalentemente ai boschi. Infatti alle nostre latitudini, ed in climi come i nostri, il bosco è di gran lunga l’ambiente naturale più probabile. Mi spiego: se abbandonassimo il territorio italiano per qualche migliaio di anni, tornando troveremmo un bosco quasi ininterrotto, con l’eccezione di dirupi, paludi, dune sabbiose, zone rocciose o dalla quota troppo elevata, dove proprio un bosco non può attecchire. Il prato, per esempio, nei nostri climi non è affatto un ambiente naturale in "equilibrio": esso è dovuto all’azione di qualcuno che ha eliminato il bosco, oppure a fatti accidentali, come un incendio, per cui temporaneamente il tappeto erboso sostituisce il bosco nelle zone bruciate. Non solo da noi; per esempio la presenza di alcune praterie in Nord America era probabilmente dovuta all’azione combinata degli indiani (che incendiavano per favorire i bisonti) e dei bisonti che pascolando eliminavano le piccole piante arboree. Più o meno come i pastori sardi con le pecore e le capre. Lo stesso vale per i prati in cui pascola il nostro bestiame, se non sono a quota troppo elevata per la crescita degli alberi.

[13] Un esempio spesso citato di quanto sia lungo il tempo necessario perché un bosco raggiunga il suo "equilibrio" è quello della foresta attorno alle rovine di Angkor, in Cambogia. La capitale del popolo Khmer fu abbandonata nel 1431, e la foresta cominciò a crescere in quel periodo, in un territorio precedentemente antropizzato. Sono trascorsi 569 anni da allora, e la foresta a detta degli esperti non ha ancora raggiunto il suo stato di maturità.

[14] Faccio l’esempio del Nord America perché è quello che conosco meglio, fuori d’Italia, e perché lì in molte zone il clima non è troppo diverso dal nostro.

[15] L’esempio della Pennsylvania non vuol significare che quella regione sia un esempio di "equilibrio" ecologico; non lo è affatto, e qui non vale la pena di discuterne; esso è solo un esempio della quantità di vita che un bosco, anche recente, ma non pulito, può ospitare.

[16] È il fenomeno dell'albero nutrice, comune quando le piante cadute non vengono eliminate e le condizioni di umidità sono propizie.

[17] Oggi vaste zone di quel territorio, un tempo coltivate, sono state abbandonate o sono sul punto di esserlo; si creano quindi opportunità di ripristino ambientale che in parte contrastano con la vocazione turistica della zona. Di recente, fortunatamente le Cinque Terre sono diventate un Parco Nazionale; vedremo come se la caveranno i legislatori ed i gestori per conciliare (ma è possibile?) gli aspetti di sfruttamento del territorio e di testimonianza del passato propri della zona, con il ripristino di condizioni di naturalità. Nel frattempo nel Parco si continua a praticare un'attività naturale ben radicata, quella della caccia.

[18] Quel modello di sviluppo, basato sull'ipersfruttamento di terreni inadatti creò per le popolazioni di quel lembo di Liguria gli stessi inconvenienti che ha creato ad esempio in certe zone della Cina. Tra questi, l'emigrazione verso zone del mondo con grandi spazi disponibili (in questo caso essenzialmente l'Argentina), e l'uso del secchio al posto del gabinetto, allo scopo di utilizzare anche le deiezioni umane per il mantenimento di una quantità sufficiente di humus in vigne ed orti.

[19] Le strisce tagliafuoco sono efficaci in caso di incendi accidentali; ma da noi gli incendi sono praticamente tutti dolosi, cioè appiccati volontariamente, quindi per i nostri boschi sono inutili, salvo per chi vorrebbe usare i boschi per veder finanziati un bel po’ di lavori pubblici. Non vi è venuto in mente che molti lavori per l’ambiente in realtà sono lavori contro l’ambiente, ma per il business di qualcuno? E che se a volte sono per l'occupazione di qualcuno, per l'ambiente non fa differenza?

[20] Disponibili, ma poco frequentati. Almeno però la gente sa che esistono e che sono consultabili da qualche parte.

[21] Questa possibilità sembra remota, se guardiamo gli indizi più evidenti. Provate per esempio a guardare lo stato di una spiaggia subito dopo che una scolaresca in gita scolastica vi ha trascorso qualche ora. Probabilmente (a me è capitato spesso) troverete cartacce, sacchetti, resti di pasti, mozziconi; e avrete un ottimo esempio di attività educative che diseducano.

[22] Si dice così, ritengo, a causa di qualche errore di trascrizione da parte degli amanuensi medievali; essi, come ci ha mostrato recentemente un libro di Umberto Eco, erano spesso distratti da passioni incontrollabili. Recenti analisi antropologiche fanno ritenere che la versione originale, coniata forse ai tempi di Cicerone, fosse "Patria del Dritto".

[23] Le culture non si possono salvare, se sono cambiati i presupposti economici e tecnologici che le avevano determinate. Si possono studiare, se ne può conservare la memoria, per gli storici o per i semplici appassionati, ma non gli si può restituire vita, se il mondo che le ha determinate è scomparso.

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