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Al sacro dovuto

(racconto inedito) di Giovanni Carafa

Al sacro dovuto
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Da fanciullo, spesso mia madre mi portava con sé al cimitero, là, dove accudiva al suo sacro dovuto. Non nascondo che, aggirarmi tra quelle memorie di un calcinato pietrificato e tra tanti ritratti di adulta connotazione, rimanevo turbato, quasi, che, tale assenze rimandassero a una presenza ancora più eterna.

Poteva capitare di recarci lì, in quel solingo e muto intorno, anche in orari di giorni infrasettimanali, così, il sospeso era massimo, interrotto solamente da qualche umile nostrano cinguettio. Mi allontanavo da lei per curiosare, ma poi subito le ero appresso perché non riuscivo a sostenere la “vuota presenza” di quel luogo.

Osservavo il nuovo edificato, che ormai di modernità attentava all’umile e modesto cubico di sempre, ma, strano a dirsi, era proprio quest’ultimo ad attrarmi, con i suoi cognomi quasi ripetuti (della piccola comunità dei tempi che furono), l’abbigliato fotografico maschile nel suo fiero portato baffuto e quello femminile dai marcati lineamenti di una vitalità sfiorita ed eternamente avvolta in un luttuoso riserbo.

«Comare Rusìna di…», era prontamente a dirmi mia madre, a richiamarne la memoria, e, ancora, «cumpa’…», o, «Pitrinu di…», quasi, in un suo distratto: “Come, non ti ricordi? Li hai forse dimenticati?”, evidentemente, in lei il passato viveva ancora nel mai sopito affetto.

Il labirintico intreccio degli stretti camminamenti, ancora in terra battuta, a volte potevano offrire l’inatteso curioso di un ceduto vuoto che tanta conferma della vana presenza sortiva. Stranamente, poi, qualche verde stagionale di incuria amministrativa, se da una parte accentuava il desolato ricordo, dall’altra mi suggeriva, inconsciamente, l’eterno quesito del “sorgere e del perire, insomma, del “continuo essere”.

A volte, qualche cappella isolata era veramente a farmi rabbrividire, non foss’altro che per il suo constatato sostenuto addobbo al limite di ogni serena reverenza: il dovuto affetto aveva assunto il connotato di un’inquieta presenza tra gli ingrandimenti fotografici del compianto e i richiami miniaturizzati di ogni circostanza, tra lumi e lumicini sempre ardenti, tra angeli scultorei affranti e drappi di un fresco scaduto dall’umido indomito di quel mesto luogo, e, poi, che dire? Fiori, fiori, tanti fiori di un distratto perito che della loro stagione passata uniformavano il triste ricordo, il tutto, inebriato da un inquieto lugubre luminoso quasi a marcare l’impossibilità di un nuovo raggio di luce al di qua (o al di là?) del ferreo portale.

L’architettura familiare del ramo materno consisteva in un’edicola a sei riquadri a faccia vista, coronata da un timpano, calcinata di grigio e spesso rinfrescata dall’immancabile cinereo… latte di calce, quel composto cromatico che tanta parte ancora aveva nelle “zoccolature” di facciata del domestico casamento urbano. Lì, in alto, a sinistra, c’era la nonna; a fianco, l’amato figlio, zio Giovanni, il giovane infaticabile sostituto paterno che tanto aveva operato per sostenere l’intorno familiare femminile; e giù? Beh, a parte un intruso amicale di mai chiarita ragione… era il vuoto atteso.

Mia madre, ricordo che nel suo dovuto a volte si lasciava da me sorprendere in un muto e sacro emotivo al cospetto di quelle assenze iconiche, io, nel vederla restavo turbato, profondamente partecipe del suo arcano commosso, richiamando subito alla mente qualche sparuto partecipato di memoria identitaria che tra il più intimo domestico mie era stato confidato.

Ho avuto sempre una grande connotazione di sospeso, lì, nel suo indaffarato e quel recitato silente; poi, intuivo essere, per lei, e oggi forse anche per me, nel suo ricordo, la risorsa più grande del continuato più vivido affetto di eternità.

I garofani erano la sua devozione usuale; di rossi, bianchi e rosa erano. Quello che da infante era stato un evidente inquieto segno floreale di trapasso, da adulto, invece, confortato anche dall’apprezzamento pittorico di evidente composizione laica… sarà il ricercato di un umile formale e intenso carminio, desiderato più che mai nelle mura domestiche in un solingo vaso di umile fattura artigianale della vicina Grottaglie, che ornava di sé la semplicità di un intimo riquadro tavolato di cucina.

Al sacro dovuto

Lo avevo cercato a Monteiasi, quell’oggetto, lì, al suo mercatino settimanale del giovedì mi pare, e, nell’interrotto di un temporaneo lavorativo... Ricordo, il frenetico aggirarmi tra le incerte bancarelle di mercanzie, tanto, perché l’identificazione specifica di quella postazione di vendita non mi era familiare, abituato com’ero, invece, al solito paesano d’origine del martedì, là, dove quel ritrovato non poteva avere riscontro alcuno perché non più conveniente per l’umile commerciante nell’eventuale intentato portarsi territorialmente più lontano di tanto dal suo intorno produttivo. Me ne innamorai istantaneamente di quella cavità minuta, semplice, invetriata di quel panna da vettovaglie e immancabilmente esternamente identificata dal suo unico logo decorativo di antica memoria. L’insistito ricercato, si completava con un ondulato orlato cinto di un fine, quanto umile ceruleo filetto; tutto lì, ma, proprio questo suo spartano essere costituiva l’ammaliante mio attrattivo così tanto conteso nell’abitudinaria contesa di contrattualità… Era un unico esemplare rimasto, o, forse, meglio dire, già unico nel suo approvvigionato; l’anziano commerciante nel suo cordiale discorrere, aveva paventato la possibilità di un non più presenziare lì, in quel ricorrente ritrovato “extra moenia” perché ormai in penuria produttiva e di redditualità… Al suo dire, ora, il mio scoperto possibile futuro altro di un attento acquisire si connotava di una profonda malinconia, quasi la triste consapevolezza di un mai più ritrovato identitario.

Va beh!

Ricordo, pure, nell’associare quel fortuito e necessario cercato tra gli appesi e variegati velati cromatici di postazioni altrui, l’improvviso rinvenire, quasi “una cosa tra le cose”, e nel suo “irrigidito barcollato arcuato…”, pur tra la tanta commiserazione degli astanti… la triste condizione di colui che in un passato, non tanto passato, poi, aveva occasionalmente deliziato di un suo ritrovato i nostri attenti giovanili ardori.

Era un giovane adulto, eternamente delineato da un dispensato sorriso colorito da due meluzze rosse sull’incarnato bianco di fondo e lo scavato provato… aveva i capelli appena velati di grigio e un po’ riccioluti, occhi di un bel acquamarina e sempre eternamente abbigliato della sua giacca a quadri scuri, fini, su un fondo grigio-oro e dalle tasche onnicomprensive nel loro essere slargato; da queste, poi, se sollecitato da un rassicurante confidenziale, era pronto a tirare fuori il suo ritrovato condiviso di sempre: un scatoletta-bauletto funebre metallico nero, armato lateralmente da una chiave meccanica a molla. Sulla mesta “cassa” era incisa una piccola croce bianca e ai piedi di essa un’impronta circolare, pari al diametro della canonica “100 lire”, che invitava a deporre il bramato conio. Il sollecitato, così, sortiva un pronto girato di chiave a ricarica del dubbio meccanismo che istantaneamente, tra un rumore metallico di congegni di scatto, sortiva l’aprirsi del minuto bauletto e il comparire, il levarsi, di una scarna ossea essenza umana che, animata da un braccio furtivo, all’istante, senza dare a noi offerenti alcun consapevolezza di quanto in atto, sottraeva il riposto dovuto (la/le “100 lire!”). Naturalmente, alla meraviglia degli ignari fruitori del lugubre spettacolo istantaneamente (noi!) subentrava l’amara considerazione dell’avvenuta furtiva, pur, tra l’inevitabile incontenibile esploso di una risata.

Viale alberato cimitero di Grottaglia

Ma, torniamo al nostro dovuto iniziale.

Quante volte il trattenerci lì, in quel luogo santo aveva sortito un frugale consumato a base di pane e pomodoro, e null’altro; magari, della mai abbastanza riconosciuta… genuina coltura di bbasciu a mari dello zio materno Tommaso (Tumasi lu “gnuru”, come, similmente, Minichina l’Africana… mia nonna paterna; boh! sembra proprio che il connotato “di colore” sia di casa nel mio familiare!).

Non capivo questo essere vita in un luogo consunto alla vita. Eppure, eppure, col tempo, molto tempo dopo, ho afferrato il senso più intimo di questo essere “continuità nella discontinuità”, unità di vita nell’affettività, lì, in quel luogo negato alla vita.

Appena varcato l’allora unico cancello di accesso al camposanto, pertanto, alla fine di li belli frischi chiuppi sobbra alla strata di Gottagli (così, come sul letto di morte si era espresso il mio compianto zio Giovanni alitando l’ultimo sospiro tra le mani strette della sua amata sorella minore Lucietta, mia madre…), e, in prossimità dell’attuale stele commemorativa dei caduti di tutte le Guerra, noi, io e la mamma, svoltavamo a sinistra, per uno stretto passaggio tra le umili tombe. La prima di queste, che incontravamo, era calcinata dell’usuale grigio; di essa mi colpiva una foto, rigidamente in bianco e nero, e consunta dal tempo, di un giovanissimo ufficiale in orgogliosa posa e in divisa savoiarda… della Grande Guerra, la cui lapide, dagli umili caratteri romani incisi di nero fumo sul tufaceo eterno, se non ricordo male, riportava l’anno di morte: 1915. Il milite si imponeva per il suo abbigliato particolare e da “soldatino”, quasi di memoria scolastica: cappello a cilindro con visiera, pettorina con due file di bottoni e pantaloni alla “zuava”; il portamento, ripeto, era fiero, fresco e giovanile; beh, il suo cognome? Mi è sempre rimasto impresso, non foss’altro che corrispondente a quello di una stimatissima e laboriosa famiglia di fidata intimità e sincera amicizia dirimpettaia del mai abbastanza intimo narrato del mio ramo materno.

Mi sovviene pure, alla mente, quasi come un sogno, lì, in quel mai sopito affetto, il rugato luttuoso anonimo femminile di un sacro silente dovuto affaccendato.

Ho avuto sempre un senso di pietà immensa nell’osservare questi aspetti, ormai per me divenuti quasi identitari.

In questi ultimi anni, poi, da adulto, quindi, non più ormai accompagnato dal tanto ei fu presenziato materno, ho attenzionato quell’umile concreto ricordo, ma ora uno sconosciuto subentro pareva presenziare, e, pure in un rinnovato asettico rivestito di pietra di Trani accompagnato dal tanto “de mode” dorato calligrafico, pertanto, non ritrovando più alcun elemento di quella passata e semplice memoria identitaria di quel privato luttuoso tanto presente nel mio “rimbombante” calpestio ancora accorto nell’evitare ogni strisciato passaggio…

All’odierno più profondo mancato affetto dovrò anche accompagnare l’oblio di ogni segno materiale di quel comunque dolce recondito.

Grazie.

Trovapiante