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Politica del paesaggio in Italia: dove eravamo rimasti e a che punto siamo

Politica del paesaggio in Italia: dove eravamo rimasti e a che punto siamo
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Circa il 41 % del territorio italiano è sottoposto a vincolo paesaggistico, ma manca una vera politica del paesaggio poiché mancano i requisiti minimi per l’avvio della politica del paesaggio. Scopriamo perché.

Ci troviamo di fronte a un 1° paradosso della politica paesaggistica italiana, quello cioè che per anni, cioè fino all’approvazione del Codice Urbani non ha mai definito l’oggetto della stessa politica. non definiva il termine “paesaggio” ma si limitava a dare un elenco di siti od immobili vincolate da politiche del paesaggio; lo stesso fece con l’unica differenza che con essa sono state ampliate le suddette aree. Con queste 2 leggi di fatto si proibiva ai proprietari di distruggere gli immobili o di modificarli in assenza di una autorizzazione e quindi in difformità con le prescrizioni della legge (1497/39); il tutto al fine di “impedire che le aree di quelle località siano utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica”; nessuno ha mai definito però cosa fosse questa bellezza da nessun punto di vista.

E fu così che si creò molta confusione tra i concetti di “ambiente” e “paesaggio” e tutt’oggi spesso si finisce per devolvere risorse finanziarie devolute ad azioni paesaggistiche verso azioni di rilevanza naturalistica.

Dopodichè passati 50 anni circa lo Stato a strettissimo giro, solo 4 anni fa ha fornito quattro diverse definizioni solo in parte compatibili: (Codice dei beni culturali e dei paesaggi), (Ratifica della Convenzione europea del paesaggio), e ultimo .

In base alla Convenzione Europea del paesaggio esso è definito in base alla percezione che ne ha la popolazione che ne usufruisce, in base invece al Codice il paesaggio è l’espressione d’identità di un popolo il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e umani e dalla loro interrelazione. Quindi nel 1° caso emerge una considerazione assolutamente percettiva, mentre nel 2° caso il paesaggio assume il significato di bene storico-culturale.

In un’ottica di benessere sociale i costi dovuti alla rinuncia dovrebbero essere minori o uguali ai benefici derivanti dalla conservazione. Ciò non vuol dire voler monetizzare tutto ma che non si può fare politica del paesaggio se non si conoscono i benefici derivanti.

Uno dei fallimenti della politica paesaggistica in Italia può essere ricondotto al fatto di aver dato per scontato quali potessero essere i benefici attesi: posti di fronte tra l’aspettativa di benefici non chiaramente definiti e concrete perdite economiche, le comunità locali non hanno avuto dubbi quale fosse il percorso da seguire. Ne è derivato uno scempio nazionale paesaggistico fortunatamente più nettamente più evidente in alcune regioni che in altre.

Individuare i benefici in una politica paesaggistica non è evidentemente sufficiente; a esempio prima di stabilire se una strada od un fabbricato hanno un impatto negativo sul paesaggio dovremo essere in grado di definire e misurare tale impatto.

La legge 1497/39 non prevedeva alcun rimborso per vincoli paesaggistici. In realtà ciò che si chiedeva era il ribaltamento del concetto di fondo: si metteva il paesaggio al servizio dell’attività edilizia.

Ciò poteva funzionare in un’economia statica in cui il mondo rurale poteva salvaguardare e tutelare, nel suo ambito con tanta manodopera a basso costo un paesaggio rurale tradizionale.

Ora invece in un’economia in transizione in cui si è assistito a un enorme massale esodo dei lavoratori dal settore 1^ ad altri più apparentemente più redditizi e in previsione di una totale riforma agraria da parte della CE che tuteli fortemente il settore a vantaggio di tutte le comunità, ne consegue che uno dei fattori principali di degrado dei paesaggi rurali e quindi socio-culturali non è riconducibile a trasformazioni attive bensì a trasformazioni passive causate dall’abbandono delle terre fertili.

Ora più che mai dunque si rende necessario un coordinamento fra pianificazione paesistica e e intervento economico sul territorio nell’ottica di una riqualificazione e conservazione del paesaggio, come specificato chiaramente dalla L. n. 14/06.

Infatti per contrastare l’abbandono dei paesaggi agrari tradizionali e il loro degrado vi è solo uno strumento: quello dell’incentivo economico la cui erogazione però deve essere fortemente ancorata a una misurazione dei benefici conseguiti. Quest’aspetto infatti è stato focalizzato chiaramente dalla UE che impone che siano sempre valutati i benefici delle azioni agro-ambientali, tra cui gli interventi in campo paesaggistico, attraverso la “condizionalità” definita dall’attuale PAC (Politica Agricola Comune) che stabilisce un nuovo rapporto fra agricoltura, ambiente e società.

Gli impegni a cui gli agricoltori devono fare riferimento in regime di PAC in vigore dal 2003 sono: “Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali” (BCAA) e “ Criteri di Gestione Obbligatori” (CGO). L’insieme degli impegni da rispettare sono raggruppati in Campi di Condizionalità, ognuno dei quali fa riferimento a 4 settori omogenei:

  • Ambiente con 5 Atti
  • Sanità pubblica, salute delle piante e animali con 4 Atti
  • Igiene e benessere degli animali con 4 Atti
  • Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali con 7 Norme

Dal 2007 sono entrati a regime tutti e 4 i Campi di Condizionalità con i loro relativi Atti e Norme:

Citiamo solo a titolo di esempio l’elenco delle Norme obbligatorie dal 1° gennaio 2005 del Campo di Condizionalità “Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali” (BCAA):

  • Norma 1.1 Regimazione delle acque nei terreni in pendio
  • Norma 2.1 Gestione delle stoppie e residui colturali
  • Mantenimento in efficienza della rete di sgrondo per il deflusso delle acque superficiali
  • Protezione del pascolo permanente
  • Gestione delle superfici ritirate dalla produzione
  • Manutenzione degli oliveti
  • Mantenimento degli elementi caratteristici del paesaggio

Dott.ssa Antonella Di Matteo

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