Politica del paesaggio in Italia: dove eravamo rimasti e a che punto siamo
Circa il 41 % del territorio italiano è sottoposto a vincolo paesaggistico, ma manca una vera politica del paesaggio poiché mancano i requisiti minimi per l’avvio della politica del paesaggio. Scopriamo perché.
Ci troviamo di fronte a un 1° paradosso della politica paesaggistica italiana, quello cioè che per anni, cioè fino all’approvazione del Codice Urbani non ha mai definito l’oggetto della stessa politica. La legge n° 1497/39 non definiva il termine “paesaggio” ma si limitava a dare un elenco di siti od immobili vincolate da politiche del paesaggio; lo stesso fece la legge 431/85 con l’unica differenza che con essa sono state ampliate le suddette aree. Con queste 2 leggi di fatto si proibiva ai proprietari di distruggere gli immobili o di modificarli in assenza di una autorizzazione e quindi in difformità con le prescrizioni della legge (1497/39); il tutto al fine di “impedire che le aree di quelle località siano utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica”; nessuno ha mai definito però cosa fosse questa bellezza da nessun punto di vista.
E fu così che si creò molta confusione tra i concetti di “ambiente” e “paesaggio” e tutt’oggi spesso si finisce per devolvere risorse finanziarie devolute ad azioni paesaggistiche verso azioni di rilevanza naturalistica.
Dopodichè passati 50 anni circa lo Stato a strettissimo giro, solo 4 anni fa ha fornito quattro diverse definizioni solo in parte compatibili: DL 42/04 (Codice dei beni culturali e dei paesaggi), L. n° 14/06 (Ratifica della Convenzione europea del paesaggio), DL 157/06 e ultimo DL 63/08.
In base alla Convenzione Europea del paesaggio esso è definito in base alla percezione che ne ha la popolazione che ne usufruisce, in base invece al Codice il paesaggio è l’espressione d’identità di un popolo il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e umani e dalla loro interrelazione. Quindi nel 1° caso emerge una considerazione assolutamente percettiva, mentre nel 2° caso il paesaggio assume il significato di bene storico-culturale.
In un’ottica di benessere sociale i costi dovuti alla rinuncia dovrebbero essere minori o uguali ai benefici derivanti dalla conservazione. Ciò non vuol dire voler monetizzare tutto ma che non si può fare politica del paesaggio se non si conoscono i benefici derivanti.
Uno dei fallimenti della politica paesaggistica in Italia può essere ricondotto al fatto di aver dato per scontato quali potessero essere i benefici attesi: posti di fronte tra l’aspettativa di benefici non chiaramente definiti e concrete perdite economiche, le comunità locali non hanno avuto dubbi quale fosse il percorso da seguire. Ne è derivato uno scempio nazionale paesaggistico fortunatamente più nettamente più evidente in alcune regioni che in altre.
Individuare i benefici in una politica paesaggistica non è evidentemente sufficiente; a esempio prima di stabilire se una strada od un fabbricato hanno un impatto negativo sul paesaggio dovremo essere in grado di definire e misurare tale impatto.
La legge 1497/39 non prevedeva alcun rimborso per vincoli paesaggistici. In realtà ciò che si chiedeva era il ribaltamento del concetto di fondo: si metteva il paesaggio al servizio dell’attività edilizia.
Ciò poteva funzionare in un’economia statica in cui il mondo rurale poteva salvaguardare e tutelare, nel suo ambito con tanta manodopera a basso costo un paesaggio rurale tradizionale.
Ora invece in un’economia in transizione in cui si è assistito a un enorme massale esodo dei lavoratori dal settore 1^ ad altri più apparentemente più redditizi e in previsione di una totale riforma agraria da parte della CE che tuteli fortemente il settore a vantaggio di tutte le comunità, ne consegue che uno dei fattori principali di degrado dei paesaggi rurali e quindi socio-culturali non è riconducibile a trasformazioni attive bensì a trasformazioni passive causate dall’abbandono delle terre fertili.
Ora più che mai dunque si rende necessario un coordinamento fra pianificazione paesistica e e intervento economico sul territorio nell’ottica di una riqualificazione e conservazione del paesaggio, come specificato chiaramente dalla L. n. 14/06.
Infatti per contrastare l’abbandono dei paesaggi agrari tradizionali e il loro degrado vi è solo uno strumento: quello dell’incentivo economico la cui erogazione però deve essere fortemente ancorata a una misurazione dei benefici conseguiti. Quest’aspetto infatti è stato focalizzato chiaramente dalla UE che impone che siano sempre valutati i benefici delle azioni agro-ambientali, tra cui gli interventi in campo paesaggistico, attraverso la “condizionalità” definita dall’attuale PAC (Politica Agricola Comune) che stabilisce un nuovo rapporto fra agricoltura, ambiente e società.
Gli impegni a cui gli agricoltori devono fare riferimento in regime di PAC in vigore dal 2003 sono: “Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali” (BCAA) e “ Criteri di Gestione Obbligatori” (CGO). L’insieme degli impegni da rispettare sono raggruppati in Campi di Condizionalità, ognuno dei quali fa riferimento a 4 settori omogenei:
- Ambiente con 5 Atti
- Sanità pubblica, salute delle piante e animali con 4 Atti
- Igiene e benessere degli animali con 4 Atti
- Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali con 7 Norme
Dal 2007 sono entrati a regime tutti e 4 i Campi di Condizionalità con i loro relativi Atti e Norme:
Citiamo solo a titolo di esempio l’elenco delle Norme obbligatorie dal 1° gennaio 2005 del Campo di Condizionalità “Buone Condizioni Agronomiche e Ambientali” (BCAA):
- Norma 1.1 Regimazione delle acque nei terreni in pendio
- Norma 2.1 Gestione delle stoppie e residui colturali
- Mantenimento in efficienza della rete di sgrondo per il deflusso delle acque superficiali
- Protezione del pascolo permanente
- Gestione delle superfici ritirate dalla produzione
- Manutenzione degli oliveti
- Mantenimento degli elementi caratteristici del paesaggio
Dott.ssa Antonella Di Matteo